Intervista a Simone Arcagni sullo stato del web, alla luce dell’introduzione dell’intelligenza artificiale
Dopo ben cinque lustri, il volto della rete è sempre più irriconoscibile rispetto a quello degli albori — non tanto nell’aspetto e nei modi di fruizione, quanto nella sostanza. Attualmente si può dire tranquillamente che Internet è in mano alle cosiddette Big Tech, che altro non sono che i giganti del web: aziende cresciute a dismisura non soltanto come capitale, ma anche come capacità di decidere, influenzare e utilizzare a fini economici la rete e i dati in loro possesso. Tutto ciò avviene in base a calcoli di mercato o a decisioni che non sono di dominio pubblico e che spesso si intrecciano con i meccanismi della politica, di cui sono diventate a loro volta attrici, sostenitrici o registe.
Natural Mania è andata a intervistare un esperto in materia: Simone Arcagni, Professore di Culture e Media Digitali all’Università IULM di Milano nonché giornalista e divulgatore.
L’intervista oltre che in forma testuale la troverete in formato audio nel nostro canale You Tube al quale vi invitiamo a iscrivervi!
Prima di concentrarci sul tema dell’incontro, ci faccia un’introduzione alla sua figura…
Sono professore di culture e media digitali all’Università IULM di Milano e mi occupo, appunto, di culture e media digitali.
Che cosa significa? Interrogo le tecnologie digitali dal punto di vista culturale: la loro applicazione nello spettacolo, nella cultura, nella società in generale, oppure la loro adozione da parte di intellettuali, creativi, filosofi e via dicendo.
Mi occupo della tecnologia non dal punto di vista ingegneristico o informatico, ma da quello culturale.
Oltre a essere docente, sono anche divulgatore, curatore e consulente.
Il tema della sostenibilità è evidentemente uno dei temi cruciali per quanto riguarda l’approccio culturale alle tecnologie digitali, perché sostenibilità significa, appunto, capire quanto la tecnologia pesa sul nostro pianeta, sulle nostre scelte e sul nostro futuro prossimo venturo.
Come è cambiato Internet negli ultimi anni? Si è passati da un luogo virtuale che offriva nuove opportunità a uno spazio sempre meno eticamente sostenibile. È d’accordo con questa affermazione?
Sì, Internet ha vissuto diverse fasi nella sua storia.
Dal punto di vista culturale possiamo dividerle in due grandi momenti.
La prima è stata quella dell’approccio utopico. Fin dagli anni ’90 Internet è stato accolto come il luogo della democratizzazione, dell’accesso ai contenuti per tutti, dell’informazione libera, della possibilità di creare e condividere conoscenza.
E’ stato vissuto come lo spazio in cui interveniva un nuovo tipo di comunicazione, in cui gli utenti, da passivi, diventavano anche attivi. Si sarebbero potuti formare più facilmente e avrebbero potuto, a loro volta, creare contenuti e condividerli all’interno di comunità che andavano nascendo.
Questa è stata la spinta utopistica. Poi, però, hanno cominciato a emergere delle preoccupazioni: innanzitutto il fatto che questo enorme mare di informazioni non è più suddiviso tra diversi attori, ma è in mano alle cosiddette Big Tech, che detengono tutto il peso e il potere di questi dati e di queste informazioni. Sono loro a stabilire le regole del gioco — regole politiche, strategiche, sociali ed economiche. Ne consegue che l’idea di democratizzazione è, diciamo così, andata a farsi benedire.
Inoltre, stanno emergendo dati relativi alla sostenibilità. I cloud predisposti per trattenere tutti questi dati richiedono enormi quantità di energia, e questa energia non è sostenibile, perché viene prodotta con un massiccio uso di materie prime.
>Ma non solo: gli stessi dispositivi tecnologici predisposti alla connessione — penso al più diffuso di tutti, lo smartphone — necessitano, nella loro costruzione, di elementi come il silicio o le cosiddette terre rare, la cui estrazione provoca gravi danni ambientali.
>Queste risorse sono inoltre oggetto di desiderio, di potere e di ricchezza tra le nazioni, e spesso implicano conflitti più o meno aperti, più o meno strutturati.
A questo si aggiunge tutta la galassia di oggetti costruiti attorno allo smartphone — cuffiette, caricatori e accessori vari — che diventano merce da smaltire con grande difficoltà, finendo per inquinare intere aree del cosiddetto Terzo Mondo.
Un esempio su tutti: i porti del Bangladesh, trasformati in enormi discariche a cielo aperto.
Se poi consideriamo gli studi condotti da diverse università, emerge anche che il lavoro di rastrellamento e di marcatura dei dati — indispensabile per l’intelligenza artificiale di nuova generazione, le cosiddette generative — si basa spesso sullo sfruttamento del lavoro minorile o, in ogni caso, di manodopera a basso costo nei Paesi poveri o emergenti. Il quadro che ne risulta è piuttosto raccapricciante: siamo passati dall’utopia alla distopia. Certo, alla fine è meglio che sia così, perché ci permette di guardare in faccia i problemi e, si spera, di provare a risolverli o quantomeno ad affrontarli.
Nel mondo attuale pensa che sia possibile cambiare o quantomeno invertire la rotta?
Non possiamo demandare tutto solo alle normative. Esistono, ad esempio, regolamenti che disciplinano la raccolta e l’utilizzo dei dati, come il GDPR 679/16, e la nuova normativa appena entrata in vigore sull’intelligenza artificiale, l’AI Act.
Abbiamo quindi una serie di leggi che possono cercare di fare da freno, o addirittura da muro, a tutta una serie di operazioni non lecite. Ma non può essere solo una questione di legislazione: deve essere anche una questione di volontà politica.
>Significa pensare le tecnologie all’interno di un sistema etico con cui immaginiamo le nostre società — non soltanto in relazione allo sfruttamento dei territori e del lavoro, ma anche a un modo più etico per gli Stati di stare tra loro. Abbiamo già guerre in corso per l’acqua.
Ci dev’essere quindi un lato giuridico, una volontà politica internazionale e un’azione che venga dal basso: da singoli cittadini, organizzazioni e associazioni che prima prendano coscienza di ciò che sta avvenendo e delle pratiche che si possono mettere in campo, e poi le attuino concretamente.
Nessuno di questi elementi, però, è efficace se non c’è la collaborazione di tutti gli altri.
In generale, come pensa che sia stato l’impatto dell’AI su chi ogni giorno usufruisce della rete?
L’impatto è forte, e parliamo di una tecnologia che non è ancora usata in maniera pervasiva.
Non è utilizzata da tutti e non viene impiegata quotidianamente, eppure ha già un effetto molto significativo.
Rendiamoci conto di cosa significa questa affermazione: cinque bicchieri di acqua pulita che, nel mondo occidentale, possono sembrare un’inezia, ma che, moltiplicati per tutte le volte che qualcuno formula una richiesta a ChatGPT, diventano un impatto enorme — soprattutto per i Paesi in cui l’accesso all’acqua e alle risorse è molto più limitato.
(Una ricerca del University of California Riverside ha infatti stimato un consumo d’acqua sorprendente nei processi di addestramento e utilizzo dei modelli linguistici di intelligenza artificiale).
L’intelligenza artificiale non ha fatto altro che accelerare situazioni e pericoli che erano già in corso con la rete Internet.
>Da questo punto di vista, c’è bisogno di comprendere questi fenomeni: innanzitutto informarsi, conoscerli, e poi provare tutti insieme — con gli attori in campo, sociali, politici ed economici — a mettere in atto non tanto un freno, ma strategie diverse.
Bisogna dire che, di fronte a uno sfruttamento piuttosto cieco da parte dei grandi gruppi di potere tecnologico, stanno nascendo numerosi movimenti e iniziative dal basso.
>Negli ultimi anni, infatti, si stanno sviluppando nuovi browser, motori di ricerca e modelli di intelligenza artificiale progettati per avere un minore impatto climatico e un maggiore valore etico.
>Sono tecnologie che certificano di non utilizzare dati rubati, che garantiscono un lavoro pagato dignitosamente e che riducono il consumo energetico necessario per l’elaborazione dei processi.
Si potrebbe parlare, ad esempio, di un uso più consapevole delle risorse, in generale.
Pensiamo, per esempio, a quanto potrebbe essere diverso l’impatto sulle risorse ambientali se ognuno di noi moderasse il consumo di carne — e non sono discorsi separati. Siamo una società altamente tecnologica, ma che vive anche di molte altre cose, e tutte queste dimensioni convergono nello sfruttamento dell’ambiente, del pianeta e dell’aria. Bisogna guardare tutto in modo complesso e organico, sapendo che i passi da compiere non possono andare in una singola direzione né essere portati avanti da un solo attore.
Sarebbe meglio proteggere le nuove generazioni mettendo dei limiti all’utilizzo di queste tecnologie o, attraverso la scuola, provare a renderle consapevoli?
Anche in questo caso, sarebbe meglio che ci fosse un tutt’uno organico.
>La scuola potrebbe essere il luogo in cui si informa su cosa sono queste tecnologie, su come funzionano e su quale possa essere il loro impatto etico. Ma non possiamo pensare di delegare solo alla scuola il ruolo di luogo virtuoso, se poi noi cittadini siamo attaccati 24 ore al cellulare e non siamo più in grado di fare un viaggio in treno di venti minuti senza scorrere freneticamente Instagram, senza postare o senza parlare al telefono.
Abbiamo persone che si fanno intere telefonate passando da una parte all’altra della città: qualcosa non funziona. Non può essere solo la scuola. Ci deve essere un movimento di presa di coscienza del fatto che le tecnologie sono strumenti straordinari — utili per il lavoro, per la scuola e per mille altre cose — ma non possono prendere il sopravvento.
Della stessa opinione è un’altra autrice americana, Shoshana Zuboff, autrice de Il capitalismo della sorveglianza, e anche l’antropologo statunitense Tim Ingold, che in un’intervista ha affermato apertamente che il modello della tecnologia digitale, così com’è, è insostenibile. Secondo lui, tra qualche anno, solo il 20-30% della popolazione potrà permettersela. Altro che luogo democratico: rischia di diventare una tecnologia d’élite per pochi.
La scuola, quindi, va bene, ma ci deve essere una presa di posizione politica da parte di diversi attori, di diversa natura e provenienza, sia dal basso che dall’alto. Serve anche una presa di coscienza da parte delle case di produzione tecnologica di ogni tipo. Non possiamo pensare che la scuola diventi l’unico luogo di riflessione: può essere un luogo importante, può creare consapevolezza, ma non basta.
La scuola dovrebbe essere uno spazio dove la tecnologia non è solo un dispositivo da usare, ma anche un oggetto di riflessione critica e filosofica. Questo è fondamentale, perché i ragazzi sanno usare molto bene i dispositivi, ma non sanno rifletterci sopra: non conoscono lo sfruttamento che c’è dietro, l’impatto ambientale, né a chi vadano realmente i contenuti che producono, e che finiscono per arricchire pochi alle spalle di tutti noi.
Quindi sì, va bene la scuola, parlare della rete internet e dell’intelligenza artificiale, ma questo tipo di consapevolezza deve poter uscire anche da lì. Se a scuola siamo virtuosi ma a casa restiamo famiglie disgregate, ognuno davanti al proprio piccolo schermo, allora la scuola avrà fatto la sua parte, ma non potrà riuscire a rivoluzionare davvero la situazione.
L’impatto dell’intelligenza artificiale sull’occupazione: saranno più le opportunità o le perdite di posti di lavoro?
Se riuscissimo a utilizzare l’intelligenza artificiale in modo etico ed efficace, essa potrebbe certamente erodere alcuni posti di lavoro, ma allo stesso tempo crearli in altri ambiti. Il problema è che viviamo in un periodo di capitalismo sfrenato, in cui, pur di ottenere un guadagno immediato, si tiene in scarso conto la qualità, l’accuratezza e la passione con cui si lavora. Di fronte a questo scenario, sono un po’ pessimista: temo che molti approfitteranno della “macchina che fa tutto” per tagliare personale, abbassando però la qualità di ciò che si produce e della comunicazione stessa.
Sulla carta, l’intelligenza artificiale può fare molto, ma solo se lavora in stretta simbiosi con l’essere umano, che deve correggere, interpretare, riprogrammare e dare senso ai dati. Il timore, tuttavia, è che tutto questo non interessi a chi è accecato dal facile guadagno con poca fatica.
Dopo tutto questo parlare di tecnologia, ci lasci una riflessione conclusiva.
Un aspetto che dimentichiamo troppo spesso è quello di guardare dentro di noi: osservare di più il nostro ambiente, chiederci chi siamo e cosa vogliamo davvero.
Come ci identifichiamo come gruppo sociale?
Non voglio essere né ingenuo né retorico, ma nei nostri discorsi sembra che stiamo affidando alle macchine troppe cose — persino l’intelligenza, la coscienza e la predizione del futuro.
Dobbiamo tornare a mettere al centro gli esseri umani, le loro relazioni e la connessione con l’ambiente, ricordandoci che le macchine, da sempre, sono strumenti che l’uomo utilizza per esplorare il mondo, condividerlo e viverlo meglio. Fare un passo indietro e chiederci meno “cosa faranno le macchine” e più “cosa vogliamo fare noi”, “chi vogliamo essere” e “dove vogliamo andare”, sarebbe già un passo fondamentale verso un futuro più consapevole.







